7 settembre 2010

Home. Casa.

Non saprei dire in che mese siamo. Probabilmente è autunno inoltrato: sono le sei del pomeriggio e fuori dalla finestra è buio. Guardo la luce del lampione in strada per capire se sta piovendo. Sembrerebbe di no, ma è difficile dirlo. Le nuvole offuscano l'atmosfera e sono talmente basse che non si vedono neanche le montagne.
La luce in cucina invece è gialla. Sono sincera, non mi dispiace. La trovo calda ed accogliente. La radio è sintonizzata su una di quelle stazioni che piacciono tanto a mia madre: la voce avvolgente dell'annunciatrice si alterna a canzoni di ieri e di oggi: i primissimi anni novanta. Nonostante io stia facendo i compiti non m'infastidisce. E non m'infastidisce neanche mia mamma che canticchia quel motivetto in inglese, sostituendo un "dududu" quando non conosce le parole. Sta preparando la pizza per cena. Quella già pronta, per carità. Quella istantanea. A volte è la Pizza Star, a volte la Pizza Catarì, a seconda di quale le è venuta meglio la settimana prima. Il profumo della passata e dell'origano si confondono con quello del tè che sorseggia tra una teglia unta e il taglio della mozzarella.
Indosso una tuta rossa, un po' felpata, la mia preferita. E' stata di mio fratello, come molti dei vestiti che indosso. Quand'ero più piccola a volte, per strada, mi hanno scambiata per un maschio. Avevo i capelli più corti di ora, i vestiti di Massi, le sbucciature sui gomiti e sulle ginocchia. A me le gonne non piacciono neanche adesso e quando la mamma mi obbliga a metterle, dopo cinque minuti ho già rotto le calze e lei si arrabbia.
Sono seduta sulla sedia nera e scomoda, con le gambe piegate sotto al sedere, per essere un po' più alta. Di fronte a me ho un quadernone a quadretti, il mio astuccio della Scout ordinatissimo, una cornicetta da disegnare in fondo all'esercizio appena concluso.
Arriva Massi con la nostra pallina in mano. La mamma già comincia a borbottare. Le chiediamo il permesso di andare a giocare in veranda. Ci obbliga a indossare un'altra maglia sopra la tuta, "perché di là non c'è il riscaldamento e fa freddo. E state attenti alle piante!". Alla giungla, vuole dire. Lascio i colori e il quaderno sul tavolo, mi precipito a giocare con mio fratello. Il naso freddo, il collo sudato, i vetri bagnati di condensa, la pallina che finisce sempre inesorabilmente in mezzo alle piante della mamma, i contrasti corpo a corpo, le risate da bambini. Arriva anche Mino, ma quel fifone di un gatto ha paura della pallina, si nasconde tra le piante e approfittando di un attimo di PAUSA (è la nostra parola d'ordine per smettere qualsiasi cosa stiamo facendo: giocando a calcio, il solletico, la lotta) torna in cucina e non si fa più vedere. Giochiamo fino a quando la pizza non è pronta, fino a quando la mamma non ci ha "già chiamati cinque volte, alla prossima la pizza ve la scordate!".


Questo è uno dei momenti della mia vita che mi torna più spesso in mente. Arriva da solo, inaspettato, oppure sono io a ricercarlo nella memoria. Mi rende serena, mi libera dalle ansie, dalle preoccupazioni. E' uno dei miei fili di collegamento (ce ne sono un altro paio) tra quella che sono ora e la bambina che sono stata. E' un rifugio intoccabile, sicuro, eterno.


[il tè della mia mamma, la luce gialla, la sua cucina]

1 commento:

  1. E' un rifugio eterno per te, che così crei rifugi eterni anche per me. E ora chi lo ferma il flusso dei pensieri?

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