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16 gennaio 2013

Ci siamo sempre lasciati senza salutarci

Si parlava, con amici di web, di quelli che un tempo facevano le cassette per le persone speciali, ma che non ne ricevevano quasi mai. Di quelli che hanno scritto e scriveranno tante lettere (personalmente in blu, se possibile su fogli a quadretti piccoli), ma di risposte... Poche. 

Ci penso e mi chiedo che cosa mi sono persa, se invece di passare i pomeriggi a scegliere la scaletta delle canzoni avessi proposto "Vediamoci alle tre in piazza", se invece di mettere nero e su bianco, avessi provato a parlare.
O avessimo, provato a parlare.


Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c’incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam rispettati al passo,
bestie caute,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato. 

(C'è sempre mancato qualcosa - V. Cardarelli)

 

5 novembre 2012

Un terzo di vita.

Era Torino.
Era una Torino ancora sconosciuta per me, fredda e umida.
Era una Torino inaspettatamente bella e complice. I tram, la stazione, i portici, le mani infreddolite, il quinto piano di casa mia e poi ancora scale e strade e luci e tram e l'autunno. 
Era Torino d'autunno. Non poteva che essere autunno.
Un terzo di vita fa ho detto "Ti amo" e poi non ho più smesso.
Un terzo di vita, a quasi trent'anni, è davvero un sacco di tempo.
Ci abbiamo messo dentro di tutto, come in una valigia troppo piccola. Perché dieci anni, a noi, non bastano mica.

Ogni 5 novembre torno a quel 5 novembre, ai miei capelli corti, proprio come ora, ai miei pantaloni troppo larghi e ai miei maglioni troppo caldi. Torno in quella strada di Torino, che ho ripercorso, dopo, ancora mille altre volte. Torno a quel cancello, su quel gradino, a noi due che ci baciamo e bisbiglio: "Fallo, diglielo. Ti cambierà la vita".

Era Torino, poi sono state Milano, Aosta, Barcellona, Firenze, Parigi, Londra, Istanbul, Reykjavik, il mare e la montagna,  la neve e poi il sole,  la neve e il sole insieme,  il giorno e la notte, gli Smashing e i Marlene, i REM, i Muse, i Placebo, i Sigur Ros.
Poi è stata casa, casa nostra.
Prima, prima di tutto però, c'è Torino fredda e umida, bella e complice. I tram, la stazione, i portici, le mani infreddolite, il quinto piano di casa mia e poi ancora scale e strade e luci e tram. 
Un terzo di vita è davvero un sacco di tempo. 





9 ottobre 2012

Pocket Coffee. E mandarini.

È ricominciata la scuola.

Tanti nomi nuovi da imparare, tante vite da scoprire.
Mi piace cercare di capire cosa si nasconde davvero dietro quello che loro mostrano. Non nego di farlo spesso con un po' di imbarazzo e tanta discrezione, e dove trovo un muro, certo, mi fermo. Ma è una sensazione stupenda quando qualcuno che all'inizio era diffidente e silenzioso, ti cerca per raccontarti l'allenamento del pomeriggio prima, cos'ha mangiato a cena o semplicemente alza lo sguardo e ti fa un sorriso.

Poi ci sono le risate, quelle non mancano mai. Parole storpiate, doppi sensi, genuinità.
"Prof, ma quella roba che sta scrivendo alla lavagna bisogna copiarla?"
"No, macché, io scrivo per passare il tempo"
"Aaaah, ok! Allora nel frattempo posso fare altro".

E ci sono anche quei momenti in cui la tua vita entra in classe e tu davvero non vorresti.
Oggi si parlava di Halloween e S., alunno che ho già avuto due anni fa, sorridente mi dice:
"Prof, si ricorda che due anni fa le caramelle ad Halloween me le ha date sua nonna? Troppo forte, io conosco la nonna della Riccio!".
È successo che per dieci, quindici secondi, lunghissimi secondi, il mio cervello è andato in tilt.

Prima mi sono ricordata del racconto di S., appena due anni fa.

[Con alcuni amici, travestito da fantasma, aveva fatto il giro del quartiere suonando alle varie porte, anche a quella di Nonna Palmina. Lei ovviamente aveva aperto. Avava fatto finta di spaventarsi, aveva scherzato con loro, aveva riempito i loro sacchetti e, alla domanda di S. incuriosito dal cognome sul campanello, aveva risposto fiera "Si, la professoressa Riccio è mia nipote".]

 Poi ho pensato alla Nonna Palmina e alle sue caramelle.

[Lei non era di quelle nonne con le caramelle da signora anziana, al rabarbaro o alla menta. La nonna aveva i cri-cri, gli orsetti, le coca-cola quelle che frizzavano sulla lingua. Quando siamo cresciuti le caramelle sono andate diminuendo e sempre più spesso ci proponeva le Nougatine, i Monregalesi (possibilmente al rum) e i Pocket Coffee. Ecco, al mio alunno undicenne e ai suoi amici Teschio, Urlo di Scream e Zombie la Nonna Palmina ha dato manciate di Pocket Coffee. E "per bilanciare" dei mandarini.]

Poi ho fatto confusione tra nonne e nonni.

[Ho pensato "Meno male che non ha parlato dei nonni, perché i nonni io non li ho più". Una vocina dentro di me ha risposto "Che dici? E il Nonno Ettore dove lo lasci?". Allora ho capito. Sono le nonne, che non ho più.]

Nonna Palmina non c'è più. 
Tutto in pochi confusi secondi. Poi mi è uscito, senza riuscire a farmarlo, di fronte a un S. veramente (stranamente) dispiaciuto:
"S., quest'anno non passare dalla nonna. La nonna non c'è più".

E niente, per fortuna è autunno.


5 settembre 2012

Dimmi che è tutto più chiaro che qui.

Ricevo questa foto via mail da mia mamma, ritrovata in cantina, nei suoi deliri di pulizia estiva.

E sono passati ormai dieci anni da quando tu non ci sei più. E sono passati più di vent'anni da quando è stata scattata questa foto.
Ma io sono sempre la tua bambina nonno, la tua gioietta bella.
Puoi prendermi in braccio e farti dare un bacio sulla pelle bruciacchiata dal sole estivo.
Puoi accarezzarmi con le tue mani rovinate dalla guerra e dagli anni e indicarmi qualcosa lassù, sulle tue montagne.
Bello che sei, nonno. Mi manchi tanto.


È tutta stesa al sole,
questa vecchia storia,
tutta sulle tue spalle, vecchio,
e sulla tua parola.
Che hai visto piovere sulle rovine,
e le montagne crollare
e hai visto il sangue e le stelle alpine
e la neve bruciare.
E hai visto l'aquila volare. 
...
Ma tu, dimmi che cosa vedi adesso tu?
Che adesso quasi non ci vedi più.
Dimmi che cosa vedi tu da lì.
Dimmi che è tutto più chiaro che qui,
tutto più chiaro che qui.
E dimmi che potrò capire,
e dimmi che potrò sapere,
e dimmi che potrò vedere,
un giorno anch'io così,
tutto più chiaro che qui.
Anch'io così, tutto più chiaro che qui,
tutto più chiaro che qui.

30 luglio 2012

Perfect score

(Saltate la pappardella e andate ai video, che tanto chissene).

Quand'ero bambina ho fatto due anni di ginnastica artistica, il primo era il corso "base", il secondo mi avevano messa in agonistica.
Ero un po' schiappa. Ero rigida. Ero poco, pochissimo, disciplinata. Che l'estate era fatta per giocare in cortile e andare a spasso con la mamma, non per allenarsi tutti i giorni chiuse in palestra o, peggio ancora, sotto al sole. Naah. 
Così, seduta in cucina, annegando in un mare di inconsolabili lacrimoni, ho deciso di mollare. Mai decisione fu più rimpianta negli anni. Schiappaerigida ero e schiappaerigida sarei rimasta, ma mi piaceva tanto. Poi in alcune cose non ero neanche così malaccio: trave e corpo libero. Invece parallele ciao e volteggio muahahah! Credo che la cicatrice che ho sul ginocchio destro sia colpa di un volteggio un po' storto finito fuori dalla piscina di gommapiuma. Tipo...sbam.
Va be', era per dire che guardando la ginnastica artistica alle Olimpiadi (in streaming, perché per la Rai se non ti chiami Pellegrini o Vezzali non esisti) mi è venuta in mente lei.
Anzi, Lei. Perché come Nadia, nessuno mai.














9 aprile 2012

Riesci a scorgerti?

E poi c'è quel posto dove vanno a finire le storie d'amore che non hai vissuto.

Banalmente, il cassetto della scrivania nella tua camera a casa dei tuoi.
Una scatola, nascosta dietro l'orsetto che ti ha regalato la tua vicina di banco in seconda media.
I sogni, di quelle notti in cui sei più stanca e il sonno è più profondo.

Ci sono le frasi lasciate in sospeso, lettere di risposta a lettere che hai scritto. Che stanno in un altro cassetto, in un'altra casa. O forse, semplicemente, non esistono più.
Ci sono gli sguardi carichi di messaggi ai quali, col senno di poi, sapresti dare un senso.
Ci sono quei momenti in cui andava presa una decisione, quell'interminabile istante in cui la tua vita ti sembra legata esclusivamente al suono della voce della persona che hai di fronte sulla porta di casa in un pomeriggio di giugno. Quando tutto era ancora possibile.
Poi il suono sbagliato, la porta chiusa. Tante altre lettere, tanti altri sguardi e interminabili istanti.

"Se..." non lo dici neanche più. 
C'è un posto, da qualche parte, in cui la tua vita è andata avanti senza di te.
In cui le sere trascorse sul letto ad ascoltare musica con accanto qualcuno non si sono interrotte bruscamente; tornato a casa la sera lui ti manda ancora messaggi in un greco sgrammaticato e buffo per dirti che ti ama.
In cui l'estate l'hai trascorsa con qualcuno al mare, senza preoccuparti di chi ti aspettava a casa, perché a casa non c'è davvero nessuno ad aspettarti. E allora hai dato tanti baci e hai fatto anche l'amore.
In cui il suono della voce di quella persona che hai di fronte sulla porta di casa un pomeriggio di giugno è quello che speravi e la porta si chiude, ma lui entra in casa con te, ti scrive delle lettere, non smette di guardarti.

Non so se è normale avere un posto dove vanno a finire le storie d'amore che non hai vissuto, o se ce l'ho solo io.

1 aprile 2012

I still think 1990 was 10 years ago.


Pensavo a quando avevo più o meno l'età dei miei alunni, forse qualcuno in più. 
Pensavo a quelle piccole emozioni che loro forse oggi non vivranno mai.

Nessun cellulare, solo il telefono di casa. Quel piccolo brivido mentre componi il numero e aspetti: tuuuuuuu...tuuuuuuuu...risponderà lui? Risponderà sua madre? Non t'incartare, non fare figure di mer.... "Pronto buongiorno sono Arianna, posso parlare con G.?". Fiù, andata!

Pomeriggi passati ad inseguire, pedinare, appostate su una panchina, dietro un cespuglio, per scoprire un nome. E scoprirlo sbagliato: quello che era secondo nella tua lista dei preferiti non si è proprio mai chiamato Andrea, ma Tommaso. Vederlo con una e smuovere amiche, compagni di classe, parenti per cercare di capire chi fosse quella. Ora basta andare su fb, cercare tra gli amici degli amici, sbirciare tra le foto.

La sera mettersi alla scrivania. Prendere il cd con il libretto dei testi. Prendere il dizionario di inglese e tradurre. Tradurre canzoni su canzoni, senza usare google translator o quei siti in cui trovi testo e traduzione a fronte. Rimanere delusi nello scoprire che quella così bella in realtà è una cagata pazzesca. Emozionarsi di fronte a "Juliet when we made love you use to cry...".

Scrivere. Non con la tastiera, davanti ad uno schermo, col touchscreen di un cellulare, sulla bacheca di qualche profilo. Scrivere con la penna, su un foglio. Mai in nero, sempre in blu, possibilmente penna stilografica. I fogli bianchi non mi piacevano, preferivo i quadretti piccoli, raramente le righe. Pagine di quaderno, block-notes, scontrini... Ho scritto lettere, biglietti, pensieri. Ho scritto bugie, sentimenti, paure, sfoghi. Ho scritto ad amiche, ad amori, a mio fratello e a mia madre. Ho scritto a chi era sia un amico che un amore, e lui lo sa. Qualcuno invece in tutti questi anni neanche l'ha mai saputo. E poi l'emozione di consegnare quelle righe, nasconderle nell'astuccio, nella tasca della giacca, passarsele veloce all'intervallo, tra le pagine di un libro. Vedersi al semaforo, "Passa a casa mia dopo cena che devo darti una cosa. Guarda che piove, portati l'ombrello". Le mani che si sfiorano mentre si passano quel foglio, gli sguardi.

E poi fare le foto in gita. Praticamente solo in gita o al compleanno. Nessuna digitale, nessun "Cancella che in questa sono venuta male", nessun album su facebook un'ora dopo essere tornati a casa.
Usa e getta comprata all'autogrill, 24 scatti. Tornare, portarla a sviluppare e mandare tuo papà dal fotografo a ritirare tutto. Controllare con lui come sono venute e partire dalle ultime, proprio quelle che i tuoi compagni hanno scattato mentre tu dormivi, immortalando i propri culi nudi e la televisione che trasmetteva un film porno.

10 febbraio 2012

Era...chi lo sa.

Quand'ero piccina uscivo da scuola e andavo a casa della nonna Palmina.
Se il programma non prevedeva nessun altro di quegli inderogabili impegni tipici degli ottenni quali catechismo, acquisto di un nuovo paio di scarpe/vestito per una qualche grandiosa occasione o il corso di nuoto, allora la nonna mi preparava il latte con il Nesquik. Mi faceva sedere sulla sua sedia, a capotavola, al tavolo grande della sala, con qualche cuscino sotto al sedere. Mentre bevevo con la mia cannuccia gialla o rosa guardavo Mila e Shiro, aspettando che mia mamma venisse a prendermi al termine di una qualche riunione o di chissà quale inderogabile impegno tipico degli adulti.
Quando invece quell'ora trascorsa insieme alla nonna era solo una tappa in attesa di un'altra attività, in genere si trattava di un po' di tempo per rilassarmi prima dell'allenamento di ginnastica artistica. Allora la nonna mi portava in bagno, mi faceva togliere i pantaloni e le calze e mi faceva salire sul bidet. Mi diceva "Tieniti! Tieniti a me che cadi!". E io mi appoggiavo alla sua schiena mentre lei mi lavava i piedini e mi ripeteva quanto fosse importante andare in palestra in ordine e pulite. Nel frattempo guardavo fuori dalla finestra, il cielo già buio dell'inverno alle cinque del pomeriggio, le luci, il treno corto fischiettante. Poi mi faceva scendere e mi avvolgeva con quei suoi piccoli asciugamani su cui ricamava delle iniziali, o un fiorellino, o non si capiva cosa.

Piccole attenzioni di una nonna, che a distanza di più di vent'anni fanno ancora bene al cuore.

Era - Lucio Battisti ♪♬

25 gennaio 2012

Colorblind

In questi giorni ho fatto di tutto per ricordarmi più cose possibili della mia nonna. Ho cercato fin da subito di aver chiaro in testa che cosa comporterà, per me, la sua assenza. È totalmente inutile scriverne qua: dovrei aprire un blog dedicato solo a lei per poterlo fare in modo completo. Nonostante questo però, nonostante l'impressionante numero di pensieri che la riguardano, mi rendo conto che qualcosa mi è sfuggito. Qualcosa che mi colpisce all'improvviso, mentre salgo le scale di case, stendo il bucato, correggo i compiti.
Oggi parlavo con Luca della spesa. Gli avevo chiesto di comprare le trofie per farle con il pesto. Ci ho messo un attimo a rendermene conto, ma le trofie al pesto, da quando viviamo insieme, le abbiamo sempre fatte col pesto della nonna. Ogni tanto ci dava una decina di cubetti di pesto congelato. "Ogni cubetto è la porzione giusta per voi. Così quando siete di fretta metà del lavoro è già fatto". Li tenevamo nel freezer, in un contenitore di plastica.
Insomma, oggi ho pianto un'ora per i cubetti di pesto. Domani non lo so cosa mi tornerà in mente.
So solo che ogni volta è come se qualcuno mi togliesse la corrente per un po', lasciandomi completamente priva di forze. Vuota.

29 dicembre 2011

Quattro lettere che volevo scrivere ma non lo farò.

Ciao, 
volevo scriverti ma in realtà non vorrei. Perché tante volte è meglio mordersi la lingua e molte altre non parlare è l'unico modo per trattenere un'emozione che non vorresti perdere mai.

Volevo scrivere a te per dirti che nonostante le incomprensioni, le liti da sedicenni e gli errori da grandi, le lacrime, la distanza fisica e quella non, la tensione, gli anni e i silenzi, sei stata la migliore amica di sempre e cerco un po' di te in tutti quelli che ho attorno. Guardavamo un sacco di film sul divano di casa tua, ci imprestavamo i vestiti, andavamo ai concerti, leggevamo tanti libri (hai ancora il mio giovane Holden con tutti i miei disegni e commenti a lato, lo sai eh?), gareggiavamo a chi aveva il padre più stronzo. Prima della maturità ci siamo tagliate i capelli corti corti e la prima notte di università abbiamo dormito nel sacco a pelo insieme. Ci scrivevamo lunghe lettere per compensare quelle volte che la voce restava muta. Un giorno per strada mi hai raccontato che una nostra amica spesso ti infastidiva,  perché trascorrevate lunghi momenti senza dire una parola, e quei lunghi silenzi erano per te quasi peggio di tante frasi di circostanza. E poi mi hai detto che i nostri silenzi invece erano sempre carichi di pensieri, le giuste pause per prendere fiato, un modo per continuare da sole un discorso affrontato insieme o trovare spunti per uno successivo. Mi manchi e mai nessuna sarà come te.

Invece volevo dire a te, che non è cambiato nulla. Dopo anni in cui me l'ero risparmiato, questo Natale ho potuto riaprezzare il tuo celeberrimo scazzodellefeste, quel morbo che ti divora in ogni santa e non santa occasione in cui si riunisce la famiglia. La tua famiglia: i tuoi splendidi genitori e i tuoi amorevoli (e ancora dobbiamo capire perché, tutto considerato) figli. Ricordo, a distanza di anni, quella terribile sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato, il dubbio di una mia possibile responsabilità per quel malumore insistente; ricordo la mia mano stretta in quella della mamma mentre cerco con lo sguardo nei suoi occhi il permesso di essere felice, il giorno di Natale. Lei sorrideva dolce e mi diceva di andare a giocare con mio fratello. Il fatto è che, forse non te ne sei accorto, sono passati un po' di anni. Non c'è più la mamma ma mio marito accanto a me, non sono più quella bambina con il vestitino di velluto nero e le scarpe di vernice delle feste. Puoi rispondere male e fare il protagonista quanto vuoi, il tuo potere su di me non funziona più. Non hai mai voluto essere indispensabile per noi, come un padre dovrebbe essere, non rammarticarti se il tuo desiderio si è avverato.

E poi volevo scrivere anche a te, per dirti che mi sembri davvero più grande. Lo so, lo sei. Ma non è solo una questione di anni, ma di testa. Forse sei diventato quello che sapevo saresti stato, forse ti arrabbiavi con me perché pretendevo che lo diventassi subito e non era possibile. Tu avevi 15 anni e io 17. Eravamo un po' stronzi tutti e due, in fondo. Ma è bello parlarti di nuovo e aver chiuso definitivamente in un cassetto tutto ciò di cui non siamo mai andati fieri.

Infine volevo scrivere anche a te, per dirti che non ti scriverò. Lo so che aspettavi il tuo turno, ma questa volta non lo farò. Non te lo meriti, e lo sai.

13 aprile 2011

Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead.

L’amore in lui era rispetto, era dedizione, era premura, era desiderio, era dolcezza, era affetto, era presenza, era comprensione, era condivisione, era protezione, era pazienza, era attesa, era silenzio, era il suo sguardo leggero, sempre posato su di lei.
E tutto questo per lei è l’amore.
Lui gliel’ha insegnato, lui gliel’ha mostrato, lui gliel’ha impresso dentro.
Era implicito nel suo semplice parlarle, sederle accanto, scherzare con lei, essere a volte silenzioso e cupo; era implicito nei soprannomi che le dava, nell’aspettare qualche secondo accanto al telefono quando lei glielo sbatteva in faccia, nel suo addormentarsi stravolto col cellulare in mano mentre si scrivevano.
Ogni cosa in lui era amore: mai ostentato, o sfacciato, ma sempre fiero e orgoglioso, difeso e custodito. Prezioso ma non per questo avido. Respirato, ogni secondo.

Si, è tutto finito, tanti anni fa. Non è mai cominciato. 


I heard that your settled down.
That you found a girl and your married now.
I heard that your dreams came true.
Guess she gave you things I didn’t give to you.

Old friend, why are you so shy?
It ain’t like you to hold back or hide from the lie.

I hate to turn up out of the blue uninvited,
But I couldn’t stay away, I couldn’t fight it.
I hoped you’d see my face & that you’d be reminded,
That for me, it isn’t over.

Nevermind, I’ll find someone like you.
I wish nothing but the best for you too.
Don’t forget me, I beg, I remember you said:
“Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead”
Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead, yeah.

You’d know how the time flies.
Only yesterday was the time of our lives.
We were born and raised in a summery haze.
Bound by the surprise of our glory days.

I hate to turn up out of the blue uninvited,
But I couldn’t stay away, I couldn’t fight it.
I hoped you’d see my face & that you’d be reminded,
That for me, it isn’t over yet.

Nevermind, I’ll find someone like you.
I wish nothing but the best for you too.
Don’t forget me, I beg, I remember you said:
“Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead”, yay.

Nothing compares, no worries or cares.
Regret’s and mistakes they’re memories made.
Who would have known how bittersweet this would taste?

Nevermind, I’ll find someone like you.
I wish nothing but the best for you too.
Don’t forget me, I beg, I remembered you said:
“Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead”

[Adele - Someone like you]



7 settembre 2010

Home. Casa.

Non saprei dire in che mese siamo. Probabilmente è autunno inoltrato: sono le sei del pomeriggio e fuori dalla finestra è buio. Guardo la luce del lampione in strada per capire se sta piovendo. Sembrerebbe di no, ma è difficile dirlo. Le nuvole offuscano l'atmosfera e sono talmente basse che non si vedono neanche le montagne.
La luce in cucina invece è gialla. Sono sincera, non mi dispiace. La trovo calda ed accogliente. La radio è sintonizzata su una di quelle stazioni che piacciono tanto a mia madre: la voce avvolgente dell'annunciatrice si alterna a canzoni di ieri e di oggi: i primissimi anni novanta. Nonostante io stia facendo i compiti non m'infastidisce. E non m'infastidisce neanche mia mamma che canticchia quel motivetto in inglese, sostituendo un "dududu" quando non conosce le parole. Sta preparando la pizza per cena. Quella già pronta, per carità. Quella istantanea. A volte è la Pizza Star, a volte la Pizza Catarì, a seconda di quale le è venuta meglio la settimana prima. Il profumo della passata e dell'origano si confondono con quello del tè che sorseggia tra una teglia unta e il taglio della mozzarella.
Indosso una tuta rossa, un po' felpata, la mia preferita. E' stata di mio fratello, come molti dei vestiti che indosso. Quand'ero più piccola a volte, per strada, mi hanno scambiata per un maschio. Avevo i capelli più corti di ora, i vestiti di Massi, le sbucciature sui gomiti e sulle ginocchia. A me le gonne non piacciono neanche adesso e quando la mamma mi obbliga a metterle, dopo cinque minuti ho già rotto le calze e lei si arrabbia.
Sono seduta sulla sedia nera e scomoda, con le gambe piegate sotto al sedere, per essere un po' più alta. Di fronte a me ho un quadernone a quadretti, il mio astuccio della Scout ordinatissimo, una cornicetta da disegnare in fondo all'esercizio appena concluso.
Arriva Massi con la nostra pallina in mano. La mamma già comincia a borbottare. Le chiediamo il permesso di andare a giocare in veranda. Ci obbliga a indossare un'altra maglia sopra la tuta, "perché di là non c'è il riscaldamento e fa freddo. E state attenti alle piante!". Alla giungla, vuole dire. Lascio i colori e il quaderno sul tavolo, mi precipito a giocare con mio fratello. Il naso freddo, il collo sudato, i vetri bagnati di condensa, la pallina che finisce sempre inesorabilmente in mezzo alle piante della mamma, i contrasti corpo a corpo, le risate da bambini. Arriva anche Mino, ma quel fifone di un gatto ha paura della pallina, si nasconde tra le piante e approfittando di un attimo di PAUSA (è la nostra parola d'ordine per smettere qualsiasi cosa stiamo facendo: giocando a calcio, il solletico, la lotta) torna in cucina e non si fa più vedere. Giochiamo fino a quando la pizza non è pronta, fino a quando la mamma non ci ha "già chiamati cinque volte, alla prossima la pizza ve la scordate!".


Questo è uno dei momenti della mia vita che mi torna più spesso in mente. Arriva da solo, inaspettato, oppure sono io a ricercarlo nella memoria. Mi rende serena, mi libera dalle ansie, dalle preoccupazioni. E' uno dei miei fili di collegamento (ce ne sono un altro paio) tra quella che sono ora e la bambina che sono stata. E' un rifugio intoccabile, sicuro, eterno.


[il tè della mia mamma, la luce gialla, la sua cucina]

31 marzo 2010

Acquarello

Ho dedicato tanti post, esplicitamente o meno, a mio padre e al mio rapporto con lui. L'ho fatto perché è un qualcosa che affronto giornalmente, da parecchi anni.
Quando la settimana scorsa però ho lasciato definitivamente casa mia, ho avuto finalmente chiaro che troppo spesso ho speso le mie energie verso la persona sbagliata. Non del tutto, per carità, soprattutto negli ultimi anni sono stati fatti grandi progressi. Come spesso accade, però, concentrata sui problemi e le difficoltà, ho trascurato chi problemi non me li ha mai creati, anzi, ha fatto di tutto per aiutarmi a risolverli, anche quando erano soltanto nella mia testa.
Il mio pensiero più grande ora va alla mia mamma. La felicità di affrontare la mia nuova vita, con l'uomo della mia vita, è stata un po' offuscata dagli occhi lucidi di Gisy. Vorrei poter dire tante cose, raccontare l'amore che questa donna fantastica ha dato a me e mio fratello. Non basterebbe un post, non basterebbe un blog. Non mi resta che cercare di assomigliarle il più possibile, di mettere in atto i suoi insegnamenti, di amarla ancora di più di quanto stia facendo ora.
Tra meno di un mese compirò 27 anni e 27 anni fa, adesso, lei ne aveva proprio 27. Aveva un pancione enorme e Massino piccolo che girava per casa. Aveva un marito, un lavoro e gli ultimi esami da dare per finire l'università. Ascoltava spesso una canzone che era appena uscita e che la faceva sentire serena. Quando capita ancora di sentirla alla radio, i suoi occhi si fanno ancora più dolci e sembra volare indietro nel tempo. Forse perché indirettamente insieme a lei l'ascoltavo anche io, ma io trovo questa canzone davvero stupenda nella sua semplicità, quasi una filastrocca, una ninna nanna.
Ti voglio bene G.


3 marzo 2010

Da più di vent'anni ormai ho una stupida convinzione.
Ogni volta che la vita stravolge i miei equilibri, io mi dispero, certo; che ho sempre avuto la lacrima facile, è risaputo. Ma poi mi tranquillizzo e mi consolo, convincendomi del fatto che tutto questo sia temporaneo.
Mi spiego. Sono convinta che Massi prima o poi tornerà a casa, che dovrò tirare i pugni contro il muro la sera tardi per fargli capire che tiene il volume troppo alto. Sono convinta che Mino tornerà, che lo sentirò presto di nuovo miagolare per uno dei suoi mille assolutamente inignorabili motivi. Sono convinta che torneranno i nonni, ogni domenica a pranzo sentirò la nonna che rimprovera il nonno, mentre lui reciterà ad alta voce i primi versi dell'Iliade. Sono convinta da sempre che papà prima o poi tornerà qui in questa casa; lo vedrò occuparsi del giardino e andremo a fare la spesa il sabato mattina, mentre la mamma e Massi dormono. E ritornerò anche io: sarò di nuovo quella bambina felice che giocava in cortile fino a tardi la sera d'estate, con le ginocchia sempre sbucciate, in bicicletta anche sotto la pioggia.
Come se ad un tratto il nastro dovesse riavvolgersi.
Razionalmente, certo, so che si tratta di una bugia. Ma questa bugia, durante tutti questi anni, mi ha fatto stare meglio. Mi dicevo con tenerezza "Lasciaglielo credere, c'è tempo perché scopra che non è così". Massi, da bambino (ancora adesso in realtà, credo), adorava le magie e i giochi di prestigio. Aveva promesso di costruirmi una macchina del tempo. Quando è diventato giornalista della macchina del tempo non ho saputo più nulla, ma questo non mi ha impedito di continuare a credere che davvero avrei rivissuto ogni cosa.
Fino a ieri sera.
Quando all'improvviso mi è stato chiaro che tra poco, ormai davvero molto poco, sarò io ad andarmene da qui. E se io, ora, me ne vado, distruggo tutto. Se io ora me ne vado, nessuno tornerà e tutto cambierà per sempre. Perché è vero, loro già da tempo non ci sono più, ma io invece sono sempre stata qui. E finché io sono qui, tutto può succedere. Finché io sono qui, quando loro torneranno, mi troveranno. Ma se me ne vado anch'io?


10 febbraio 2010

Caro nonno,
ti scrivo due righe veloci veloci, perché è un po' che non parliamo e volevo dirti solo un paio di cose. Cavolo, mi viene già da piangere.
Volevo dirti che l'altro giorno in classe, il 27 gennaio, ho parlato di te. Ho raccontato a dei ragazzini di undici anni la storia che tu hai raccontato a noi per tanti anni, con parole sempre diverse, suscitando emozioni sempre nuove. Ho cercato di essere il più fedele possibile, ho letto le parole che tu stesso hai scritto molti anni dopo la guerra. Ho spiegato loro della tua lunga fuga da Dachau, dopo i due precedenti tentativi falliti. Gli ho descritto la tua bicicletta tedesca e ora vogliono a tutti i costi vederla! Ho fatto fatica a trattenere le lacrime, la voce un paio di volte è uscita più bassa e rauca di come avrei voluto. Se ne sono accorti anche loro, è piombato un silenzio incredibile in classe. Hanno voluto vedere le cartoline che spedivi alla nonna dal campo di concentramento, hanno voluto vedere le tue foto e sono rimasti a bocca aperta quando i tuoi appunti riportavano "Avevo 28 anni quando rientrai ad Aosta dopo aver percorso quasi mille chilometri, prima a piedi e poi in bicicletta". E mentre leggevo avevo una piccola fitta allo stomaco anche io...non mi ero mai resa conto che avevi solo un anno più di me ora. Non l'avevo mai capito. Quando raccontavi ero forse troppo piccola per capire davvero. Lo sono anche ora, comunque.
So che tutto questo ti avrebbe reso molto fiero e orgoglioso, per cui te lo dico e lo scrivo, così che tu possa rileggerlo anche da dove ti trovi ora, ogni volta che vorrai.
La seconda cosa che volevo dirti, l'hai già capita da solo...Quando salivamo in ascensore mi dicevi sempre "A che piano, professoressa? Perchè lo sai che anche tu diventerai una professoressa come tua mamma, vero?". Lo dicevi raramente di fronte agli altri, quasi sempre in ascensore. Non ho mai capito perché. Beh, non sono ancora una professoressa, ci vorrà ancora del tempo. Ma sono sicura, sicurissima, che stai sorridendo e stai pensando "Brava, gioietta bella".
Infine, volevo solo dirti grazie per quello che hai fatto per la mamma. L'altro giorno, a tavola, si lamentava che nessuno di noi l'aiuta, che lei si occupa di tutti ma nessuno si occupa di lei. "L'unico che si è sempre preso cura di me, era il mio papà", ha detto. Non nascondo che ho provato invidia per lei, per aver avuto un papà così speciale. Volevo ringraziarti per questo.
Ti abbraccio forte, nonno. E ti stringo forte la mano, come quell'ultima volta che abbiamo passeggiato insieme, ricordi?
Arianna

9 dicembre 2009

Parole recuperate nel dimenticatoio. Una voce, dei suoni, che mi hanno accompagnata per anni. Se chiudo gli occhi sono lì, tra i banchi di scuola, in camera mia, in motorino, sotto la pioggia.
Mai da sola, sempre sola.


Parole, così com'erano scritte sul mio diario, in quinta liceo. Parole, punto.


9 novembre 2009

Incontro


E correndo mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei,

la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda:
come un istante "deja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...
(Incontro - F. Guccini)


Mentre stavamo sedute una di fronte all'altra a raccontarci gli ultimi sei anni delle nostre vite, in un sabato pomeriggio di novembre qualunque, come l'ultimo che abbiamo passato insieme tanto tempo fa, mi è tornata in mente questa canzone... triste, malinconica.. come piace a me, insomma. Una frase in particolare mi risuonava per la testa:

"cara amica il tempo prende, il tempo dà..."


Il tempo, in effetti, ci ha tolto molto. In senso negativo, certo, ma l'ha fatto anche per il nostro bene. Ed è sempre lui, il tempo, che ci ha dato la maturità per ritrovarci, affrontare, superare.

29 settembre 2009

29 settembre



Ricordi di quand'ero bambina... L'ascoltavo insieme a Massi, sul grande divano marrone della nonna. La sapevo tutta a memoria, così come tutte le altre di quel cd di Maurizio Vandelli, con la custodia rotta tenuta insieme da un adesivo della Juventus.
La cantavo senza neanche capire il testo... senza capire che parlava di un tradimento consumatosi il 29 settembre di chissà che anno, in chissà quale città, ai danni di una fidanzata che la mattina successiva si sente dire al telefono, tra una risata e l'altra "t'amo".
Eppure...
Eppure porca miseria, sarà l'affetto che mi lega a questa canzone, ai ricordi che evoca, ma io non riesco a non provare simpatia per quest'individuo.

"E tutta la città
correva incontro a noi.."

13 luglio 2009

In genere uso la mia tesi di laurea per appoggiarci sopra il computer quando guardo telefilm di alto spessore culturale sdraiata nel letto: Gossip Girl, 90210, The Hills, The City, Grey's Anatomy e Private Practice. E beh si, anche Boris, ma quello solo col Tofi che mi canta tutta la sigla facendo anche le facce. Appoggio il malloppone di 180 pagine sulla sedia, e ci appoggio sopra il pc. Questioni di equilibrio e di ventole che si surriscaldano.
Questa sera ho ripreso in mano la tesi e, attenzione, l'ho anche riaperta. E avevo dimenticato i ringraziamenti simpatici che avevo fatto alle mie amiche Valentina e Noemi (amiche mi mancate tantissimissimo). E avevo dimenticato anche la frase introduttiva. Rileggendola l'ho trovata in perfetta sincronia - mi piace molto questa parola ultimamente - con la mia vita di ora. E non solo la mia. Quindi vorrei riscriverla e "dedicarla" a mio fratello.

C'è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti mai sarebbero avvenute... Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L'audacia ha in se' genio, potere, magia. Incomincia adesso.

[J.W. Goethe]
Non è inconscienza, superficialità, sconsideratezza. E' audacia. Ti voglio bene Massi.

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