Visualizzazione post con etichetta Affari di famiglia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Affari di famiglia. Mostra tutti i post

9 ottobre 2012

Pocket Coffee. E mandarini.

È ricominciata la scuola.

Tanti nomi nuovi da imparare, tante vite da scoprire.
Mi piace cercare di capire cosa si nasconde davvero dietro quello che loro mostrano. Non nego di farlo spesso con un po' di imbarazzo e tanta discrezione, e dove trovo un muro, certo, mi fermo. Ma è una sensazione stupenda quando qualcuno che all'inizio era diffidente e silenzioso, ti cerca per raccontarti l'allenamento del pomeriggio prima, cos'ha mangiato a cena o semplicemente alza lo sguardo e ti fa un sorriso.

Poi ci sono le risate, quelle non mancano mai. Parole storpiate, doppi sensi, genuinità.
"Prof, ma quella roba che sta scrivendo alla lavagna bisogna copiarla?"
"No, macché, io scrivo per passare il tempo"
"Aaaah, ok! Allora nel frattempo posso fare altro".

E ci sono anche quei momenti in cui la tua vita entra in classe e tu davvero non vorresti.
Oggi si parlava di Halloween e S., alunno che ho già avuto due anni fa, sorridente mi dice:
"Prof, si ricorda che due anni fa le caramelle ad Halloween me le ha date sua nonna? Troppo forte, io conosco la nonna della Riccio!".
È successo che per dieci, quindici secondi, lunghissimi secondi, il mio cervello è andato in tilt.

Prima mi sono ricordata del racconto di S., appena due anni fa.

[Con alcuni amici, travestito da fantasma, aveva fatto il giro del quartiere suonando alle varie porte, anche a quella di Nonna Palmina. Lei ovviamente aveva aperto. Avava fatto finta di spaventarsi, aveva scherzato con loro, aveva riempito i loro sacchetti e, alla domanda di S. incuriosito dal cognome sul campanello, aveva risposto fiera "Si, la professoressa Riccio è mia nipote".]

 Poi ho pensato alla Nonna Palmina e alle sue caramelle.

[Lei non era di quelle nonne con le caramelle da signora anziana, al rabarbaro o alla menta. La nonna aveva i cri-cri, gli orsetti, le coca-cola quelle che frizzavano sulla lingua. Quando siamo cresciuti le caramelle sono andate diminuendo e sempre più spesso ci proponeva le Nougatine, i Monregalesi (possibilmente al rum) e i Pocket Coffee. Ecco, al mio alunno undicenne e ai suoi amici Teschio, Urlo di Scream e Zombie la Nonna Palmina ha dato manciate di Pocket Coffee. E "per bilanciare" dei mandarini.]

Poi ho fatto confusione tra nonne e nonni.

[Ho pensato "Meno male che non ha parlato dei nonni, perché i nonni io non li ho più". Una vocina dentro di me ha risposto "Che dici? E il Nonno Ettore dove lo lasci?". Allora ho capito. Sono le nonne, che non ho più.]

Nonna Palmina non c'è più. 
Tutto in pochi confusi secondi. Poi mi è uscito, senza riuscire a farmarlo, di fronte a un S. veramente (stranamente) dispiaciuto:
"S., quest'anno non passare dalla nonna. La nonna non c'è più".

E niente, per fortuna è autunno.


5 settembre 2012

Dimmi che è tutto più chiaro che qui.

Ricevo questa foto via mail da mia mamma, ritrovata in cantina, nei suoi deliri di pulizia estiva.

E sono passati ormai dieci anni da quando tu non ci sei più. E sono passati più di vent'anni da quando è stata scattata questa foto.
Ma io sono sempre la tua bambina nonno, la tua gioietta bella.
Puoi prendermi in braccio e farti dare un bacio sulla pelle bruciacchiata dal sole estivo.
Puoi accarezzarmi con le tue mani rovinate dalla guerra e dagli anni e indicarmi qualcosa lassù, sulle tue montagne.
Bello che sei, nonno. Mi manchi tanto.


È tutta stesa al sole,
questa vecchia storia,
tutta sulle tue spalle, vecchio,
e sulla tua parola.
Che hai visto piovere sulle rovine,
e le montagne crollare
e hai visto il sangue e le stelle alpine
e la neve bruciare.
E hai visto l'aquila volare. 
...
Ma tu, dimmi che cosa vedi adesso tu?
Che adesso quasi non ci vedi più.
Dimmi che cosa vedi tu da lì.
Dimmi che è tutto più chiaro che qui,
tutto più chiaro che qui.
E dimmi che potrò capire,
e dimmi che potrò sapere,
e dimmi che potrò vedere,
un giorno anch'io così,
tutto più chiaro che qui.
Anch'io così, tutto più chiaro che qui,
tutto più chiaro che qui.

29 dicembre 2011

Quattro lettere che volevo scrivere ma non lo farò.

Ciao, 
volevo scriverti ma in realtà non vorrei. Perché tante volte è meglio mordersi la lingua e molte altre non parlare è l'unico modo per trattenere un'emozione che non vorresti perdere mai.

Volevo scrivere a te per dirti che nonostante le incomprensioni, le liti da sedicenni e gli errori da grandi, le lacrime, la distanza fisica e quella non, la tensione, gli anni e i silenzi, sei stata la migliore amica di sempre e cerco un po' di te in tutti quelli che ho attorno. Guardavamo un sacco di film sul divano di casa tua, ci imprestavamo i vestiti, andavamo ai concerti, leggevamo tanti libri (hai ancora il mio giovane Holden con tutti i miei disegni e commenti a lato, lo sai eh?), gareggiavamo a chi aveva il padre più stronzo. Prima della maturità ci siamo tagliate i capelli corti corti e la prima notte di università abbiamo dormito nel sacco a pelo insieme. Ci scrivevamo lunghe lettere per compensare quelle volte che la voce restava muta. Un giorno per strada mi hai raccontato che una nostra amica spesso ti infastidiva,  perché trascorrevate lunghi momenti senza dire una parola, e quei lunghi silenzi erano per te quasi peggio di tante frasi di circostanza. E poi mi hai detto che i nostri silenzi invece erano sempre carichi di pensieri, le giuste pause per prendere fiato, un modo per continuare da sole un discorso affrontato insieme o trovare spunti per uno successivo. Mi manchi e mai nessuna sarà come te.

Invece volevo dire a te, che non è cambiato nulla. Dopo anni in cui me l'ero risparmiato, questo Natale ho potuto riaprezzare il tuo celeberrimo scazzodellefeste, quel morbo che ti divora in ogni santa e non santa occasione in cui si riunisce la famiglia. La tua famiglia: i tuoi splendidi genitori e i tuoi amorevoli (e ancora dobbiamo capire perché, tutto considerato) figli. Ricordo, a distanza di anni, quella terribile sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato, il dubbio di una mia possibile responsabilità per quel malumore insistente; ricordo la mia mano stretta in quella della mamma mentre cerco con lo sguardo nei suoi occhi il permesso di essere felice, il giorno di Natale. Lei sorrideva dolce e mi diceva di andare a giocare con mio fratello. Il fatto è che, forse non te ne sei accorto, sono passati un po' di anni. Non c'è più la mamma ma mio marito accanto a me, non sono più quella bambina con il vestitino di velluto nero e le scarpe di vernice delle feste. Puoi rispondere male e fare il protagonista quanto vuoi, il tuo potere su di me non funziona più. Non hai mai voluto essere indispensabile per noi, come un padre dovrebbe essere, non rammarticarti se il tuo desiderio si è avverato.

E poi volevo scrivere anche a te, per dirti che mi sembri davvero più grande. Lo so, lo sei. Ma non è solo una questione di anni, ma di testa. Forse sei diventato quello che sapevo saresti stato, forse ti arrabbiavi con me perché pretendevo che lo diventassi subito e non era possibile. Tu avevi 15 anni e io 17. Eravamo un po' stronzi tutti e due, in fondo. Ma è bello parlarti di nuovo e aver chiuso definitivamente in un cassetto tutto ciò di cui non siamo mai andati fieri.

Infine volevo scrivere anche a te, per dirti che non ti scriverò. Lo so che aspettavi il tuo turno, ma questa volta non lo farò. Non te lo meriti, e lo sai.

23 marzo 2011

Piccoli cuccioli crescono.

Ieri era quinto il complemese di Mao (suona un po' come il mesiversario che si festeggiava con il fidanzato del liceo, ma più bello). Questa mattina gli ho scattato qualche foto: impresa praticamente impossibile perché era nel pieno di una delle sue crisi pazze in cui salto addosso ad ogni cosa che si muova e anche no. In particolare se la prende con la sua povera codina che, posso testimoniarlo, non gli ha fatto davvero nulla di male. Vi lascio qualche foto di quel cuoricino di gatto.





24 febbraio 2011

Non si fa credito.

Mi capita spesso di dovermi mordere la lingua per non esprimere la mia opinione. 
Mi capita spesso, ma solo in un posto: a scuola, sul lavoro.
Ultimamente poi, torno a casa che la mia lingua è tipo una di quelle samelle che grigliamo a Ferragosto.
Il problema sono alcuni alunni indisciplinati.
No, non è neanche vero.
Il problema è chi, improvvisandosi psicologa dell'ultima ora, ha aperto un chioschetto di alibi e giustificazioni, proprio in corridoio, di fronte al bagno dei maschi, e ne elargisce a mani piene.
In cima alla top ten delle scuse più usate c'è "Sai, bisogna capirlo... ha una situazione difficile a casa... i genitori sono separati, NE SOFFRE, il fine settimana è sballottato da una parte all'altra..".
Questa cantilena mi ronza nelle orecchie da diversi giorni ormai e sono davvero arrivata al limite di sopportazione.

Innanzitutto complimenti per la grande scoperta: i genitori si sono separati e il figlio undicenne ne soffre.
Maddai? Sul serio? Machedavero?
E io che pensavo che un bambino delle medie accogliesse la notizia con un bel sorriso sulle labbra, riempisse il diario di faccine sorridenti e che per l'occasione organizzasse anche una grandiosa festa nella piscina di palline del Mac Donald's.
Acuta, molto acuta, collega.
Quindi vuoi dirmi che se il ragazzino non studia è per questo?
Quindi vuoi dirmi che se la bambina chiacchiera è per questo?
Quindi vuoi dirmi che il ragazzino rutta in classe è per questo?
Quindi vuoi dirmi che se la bambina manca di rispetto ai compagni, le bidelle, gli insegnanti è per questo?
Ah. E pensa che io avrei detto che si tratta solo di una massiccia dose di maleducazione, se non addirittura di ineducazione.
No, mi dispiace, io non ci sto.
E non ci sto non perché non ho esperienza nel campo dell'insegnamento; non perché non ne ho viste tante come ne ha viste la collega. 
Io non ci sto perché parlo per cognizione di causa.
Sono stata bambina figlia di genitori separati e sono quasi donna figlia di genitori separati.
Avevo appena compiuto otto anni e, guardo un po', ne ho sofferto.
Ricordo i pomeriggi a piangere in braccio alla mamma, ricordo mio fratello che mi abbracciava e mi diceva che non era colpa nostra, ricordo l'invidia nell'andare a casa delle mie amiche e trovarci una mamma e un papà che andavano d'accordo. Ricordo i fine settimana sballottati da una casa all'altra, ricordo le litigare per le feste di Natale e le vacanze estive. Ricordo di aver rinunciato ai compleanni delle mie amichette perché logorata dal senso di colpa non volevo sprecare l'unico giorno che passavo con papà.
Eppure non ho mai neanche lontanamente pensato e VOLUTO che questa situazione potesse costituire per me una giustificazione. Ho preso i miei votacci in matematica, ho preso una nota perché cantavo durante la lezione di educazione tecnica, ho finto qualche mal di pancia per non andare a catechismo, al liceo una volta ho saltato le prime due ore per andare a vedere la partita di calcio della squadra maschile. Ma niente di tutto ciò aveva a che fare con la situazione che avevo a casa. E mi sarei arrabbiata tantissimo se qualcuno avesse anche solo potuto pensarlo.
Certo, non tutti reagiamo allo stesso modo. Ma proprio per questo è così stupido generalizzare e racchiudere tutto nella frase ".. i genitori sono separati, ne soffre...". 
I lividi, i segni, le cicatrici non andranno mai via. Io li porto ancora sotto il maglioncino di Zara e i jeans della Diesel. Li porterò sempre. Dentro, in fondo in fondo. Ce ne sarà sempre traccia nel rapporto che ho con gli altri: quella che io tante volte anche qui ho chiamato con affetto "la mia sindrome dell'abbandono". Ce n'è traccia nel mio rapporto con Luca, nelle richieste che a volte gli faccio e che devono apparirgli senz'altro assurde. Ce n'è inevitabilmente traccia nel rapporto con i miei genitori, maggiormente con mio padre. E c'è una traccia già segnata anche nel mio futuro, nel mio desiderio di voler costruire una famiglia tutta mia, questa volte forte, indissolubile.
Ma insegnare a un ragazzino che per tutti questi motivi è giusto sentirsi in credito con la vita, è la cosa più sbagliata che si possa fare. Ci sarà sempre chi sta peggio di noi, ognuno ha i proprio problemi e la vita non ci deve niente. Inutile arrabbiarsi, recriminare, battere i piedi. Non si ottiene nulla. Ci si può fare un bel pianto per buttare fuori la negatività, ma null'altro. Si può anzi cercare di non darla troppo vinta alla vita, rimboccarsi le maniche, non piegarci sotto il peso delle legnate che ci arrivano dall'alto. 
Certo, si potrebbe replicare che è facile parlare ora, a vent'anni di distanza.
Credetemi, non lo è. L'istinto di piangersi addosso, l'idea di essere state vittime di un'ingiustizia, ancora ogni tanto mi sfiora la mente. Spesso ho dei pomeriggi bui in cui sono di nuovo quella bambina di otto anni che chiedeva al papà di restare a dormire "ancora una notte, ti prego".
Ci sarà e ci vorrà tempo per questi ragazzini, BAMBINI.
Ma sono le persone che hanno intorno, adulti, che non devono mollare, che non devono giustificare, assecondare. Perché così non si aiuta nessuno, anzi.

Ecco, questo vorrei dire ogni volta che mi mordo la lingua.
A scuola sono la precaria, quella giovane, quella inesperta.
Qui sono a casa mia, nel mio blog e non ci penso proprio a non dire quello che penso.


16 novembre 2010

Something tells me that you are free again, in a place that feels like home.

Venerdì sera Lapo è tornato a casa sua. 
Mi, anzi, CI manca terribilmente. 
Soprattutto quando apro il frigo e non lo sento miagolare.
Soprattutto quando guardo la televisione e non si accoccola sulle mie gambe.
Soprattutto quando vado in bagno e non lo sento grattare la porta.
Soprattutto quando mangiamo e non arriva a strusciarsi di corsa sulle nostre gambe.
Soprattutto quando sono da sola a casa nel pomeriggio e non si sposta per seguirmi in ogni posto in cui decido di sedermi.
Soprattutto quando rientro e non lo trovo dall'altra parte della porta.
Soprattutto quando esco e non ho più nessuno da rassicurare "Torno presto, non fare danni!".
Soprattutto quando lo cerco per fargli un grattino sulla fronte e lui non c'è.
Soprattutto la sera quando vado a bere un goccio d'acqua prima di infilarmi nel letto e non devo più dargli da mangiare.
Soprattutto quando mi siedo sul divano e non ho più i suoi starnuti bavosi che sgocciolano ogni cosa.
Soprattutto quando ho i momenti di pazzia e non c'è lui da far uscire di testa.
Soprattutto sempre.

Però adesso il Popocino è di nuovo a casa sua. 
Fonti attendibili mi dicono che ha ripreso a dormire accoccolato sulle gambe del suo padrone.
Ha accolto mio padre di ritorno da un viaggio per farsi fare le coccoline direttamente nel parcheggio.
Ha fatto il lecchino con quella santa della vicina per avere un pasto extra; trovandola (stranamente, di solito è più rifornita di un negozio di animali) impreparata ha pensato bene di darle una zampata.
Si è anche mangiato un frullato mele e kiwi, tanto per non perdere le buone abitudini.
E' tornato ad essere il capo (o come diciamo io e Luca, il sindaco) della sua piccola frazione: ha ripreso il comando del suo giardino, allontanando il suo rivale Tuppy, ha probabilmente cagato nel mucchio di foglie sotto all'albero (con somma gioia e sorpresa di chi poi le sposterà) ma, cosa più importante, mi dicono che ha ripreso il suo posto sul balcone che domina la valle (quello della vicina, ovviamente). Proprio come in questa foto scattata mesi fa, sono sicura che adesso stia tenendo un discorso ai suoi concittadini per fargli capire chi comanda, nel caso l'avessero dimenticato.
Lapino del mio ♡, lui.


11 ottobre 2010

Ora l'estate è davvero finita.

Ci mancate tantissimo. Grazie per la luminosa e indimenticabile estate passata con voi*.
Questo è l'sms che ho ricevuto poco fa da mio padre. Già, perché sto scrivendo dal nostro nuovo letto, nella "nostra" nuova casa, in questa nuova fase della nostra vita.
Per me l'estate finisce oggi, finisce adesso. Ed è stata sicuramente una delle estati più belle della mia vita. 
No, non siamo stati al mare in un posto fastantisco. Non mi sono riposata dormendo tutti i giorni fino "all'ora beata" (come direbbe Madre). Non ho preso il sole, non ho mai fatto troppo tardi la sera, non ho partecipato a feste grandiose.
Ho finito di lavorare a giugno, con la fine della scuola, ho dato tre esami, ho speso la maggior parte del mio tempo per il tirocinio di 500 ore (mica ancora finito). Però ho anche fatto da testimone al matrimonio di mio fratello, abbiamo organizzato le solite alcoliche grigliate, abbiamo cenato in giardino con il sole che scendeva dietro le nostre splendide montagne. Una sera abbiamo fatto una passeggiata per i prati del paese: indossavo pantaloncini gialli, maglietta della Standa e scarpe da ginnastica senza calze, proprio come quando da bambina giocavo in cortile. Ci siamo addormentati con la finestra aperta e i grilli in sottofondo. Abbiamo annaffiato il prato, fatto morire diverse piantine di basilico. Ho recuperato una piccola parte del rapporto con mio padre. Anche se sei mesi non possono battere vent'anni, sicuramente abbiamo fatto dei passi avanti (un giorno mi ha detto che era bello avermi di nuovo vicina, come quando ero bambina. Mi ha portato il té caldo, quella volta che sono stata male, e quando era solo la sera mi scriveva un messaggio per sapere se poteva venire a fare due chiacchiere con noi). Ho avuto di nuovo un gattino, che meriterà un post a parte quando il suo padrone tornerà e lui ci saluterà definitivamente. Abbiamo fotografato tramonti, tagliato l'erba, ucciso ragni, litigato con i maggiolini prima e le falene poi. Ho steso il bucato sul filo al sole e tutto il giardino profumava di buono. Luca mi ha chiesto di sposarlo e io ho risposto di si.


* La casa che ci ha ospitati, da marzo fino ad oggi, è di mio zio che abita a pochi passi (dieci?) da mio padre.

1 ottobre 2010

The rat within the grain.

Quella che per tanto tempo ho immaginato potesse essere la mezz'ora più bella della mia vita, è stata sicuramente una delle peggiori.
La colpa è mia, senz'altro. Andrea de Carlo in Due di due diceva che "non bisognerebbe mai immaginarsi niente molto in dettaglio perché l'immaginazione finisce per mangiarsi tutto il terreno". Molto saggio. Peccato che io non sia mai riuscita a mettere in pratica questo consiglio.
Avevo immaginato l'emozione trasparire dai tuoi gelidi occhi azzurri. Avevo riflettuto sulle parole che avresti scelto per dirmi "come sei bella, figlia mia" invece delle solite razionali riflessioni sui soldi e su come dividere le spese. Ero quasi riuscita a immaginare il tuo abbraccio caloroso una volta usciti dal negozio ma non ho sentito proprio niente, così distanti sul marciapiede.
E va bene così, dai.
Anzi, no.
Perché non l'ho chiesto io di essere tua figlia, eppure ho cercato di farlo nel migliore dei modi: ho vissuto con la costante preoccupazione di non essere un peso, attenta a non fare passi falsi, a non deluderti, a non farti pesare una situazione in cui sicuramente nessuno voleva trovarsi, ma di cui certo non posso assumermi la responsabilità, io. E il peso infatti lo portiamo noi, io e quell'altro ragazzo alto che mai mi ha lasciata sola e mai mi ha delusa negli ultimi vent'anni (com'era prevedibile, infatti, anche oggi è stato così).
Il tempo passa e io continuo a credere che le cose cambieranno, che la ferita si rimarginerà. Il mio sogno è quello di poter essere totalmente indifferente e impermeabile a tutto ciò che ci riguarda. Ho sviluppato delle mie strategie, ho dei metodi per farmi scivolare addosso le cose. Ci sono però delle falle, ci sono delle crepe, ci sono delle variabili che non avevo calcolato e fanno impazzire il sistema mandandolo, mi scuso per il francesismo, felicemente a puttane.
Quando imparerò a non permetterti più di farmi del male, papà? Quando smetterò di  permetterti di farmi sentire ancora una bambina sbagliata di fronte a te, quella che chiede e pretende senza averne diritto, anche ora che sono una donna?
Ma più che quando, come?
Qualcuno me lo spieghi, per favore.
Grazie ancora per aver rovinato quella mezz'ora, per aver aggiunto l'ennesimo ricordo di merda alla mia splendida collezione.
Che non è vero che ci ricordiamo solo le cose dolorese perché più traumatiche e quelle piacevoli si perdono nella memoria. A volte ci ricordiamo solo le cose brutte perché ci sono solo cose brutte da ricordare.

I wouldn't want you to want
To be wanted by me
I wouldn't want you to worry
You'd be drowned within my sea
I only wanted to be wonderful
And wonderful is true
In truth I only really wanted
To be wanted by you.

(Damien Rice_The rat within the grain)

13 agosto 2010

Della pesantezza.

Sono dovuta andare a casa di mia madre per sistemare dei testi scolastici che le sue colleghe di lettere mi hanno gentilmente regalato per arricchire la mia scarna biblioteca da supplente. Li ho tutti catalogati sul computer, con bollino di riferimento appiccicato sul libro. Un lavoro scassapalle che metà basta.
Aggiungi che oggi in pratica era il primo pomeriggio di "ferie" di quest'estate. Fatto?
Aggiungi una madre scassapalle. Fatto?
Bene, avete ottenuto un pomeriggio da dimenticare.
Già, perché quando hanno distribuito le etichette, la signora madre ha deciso che a me spettava quella della figlia deficiente, quella a cui vanno ripetute le cose ottanta volta (sempre le stesse, eh), quella le cui scelte sono sempre discutibili, quella che ancora è piccola per sapere cosa è giusto e cosa no, quella che guardi e ascolti scuotendo la testa con aria rassegnata. Oui, c'est moi.
Già prima di entrare so cosa mi aspetta, ma cerco di far finta di niente, in fondo è la mia mamma. Cerco di essere davvero contenta di vederla, perché comunque lo sono. Cerco di pensare che è lei che mi ha cresciuta negli ultimi ventisette anni. Giuro, lo faccio. Ma poi basta un tono di voce, quel tono di voce, e mi parte lo scazzo cosmico, il fastidio intergalattico, la tolleranza zero. Per cui rispondo non propriamente bene, saluto non calorosamente, me ne vado fredda, fiera e distaccata...
...per poi sentirmi una merda in macchina, per poi prendermela con qualunque povero cristo che mi guida davanti, per poi piangere al telefono con Luca senza neanche dargli il tempo di parlare.
Ma meno male che torno a casa, trovo Lapo con la sua lingua chilometrica ed ettolitri di bava, il mio bel bucato stirato sta mattina sul letto e una cascata di pioggia che lava via tutto.
Autumn, I'm still waiting for you.

31 marzo 2010

Acquarello

Ho dedicato tanti post, esplicitamente o meno, a mio padre e al mio rapporto con lui. L'ho fatto perché è un qualcosa che affronto giornalmente, da parecchi anni.
Quando la settimana scorsa però ho lasciato definitivamente casa mia, ho avuto finalmente chiaro che troppo spesso ho speso le mie energie verso la persona sbagliata. Non del tutto, per carità, soprattutto negli ultimi anni sono stati fatti grandi progressi. Come spesso accade, però, concentrata sui problemi e le difficoltà, ho trascurato chi problemi non me li ha mai creati, anzi, ha fatto di tutto per aiutarmi a risolverli, anche quando erano soltanto nella mia testa.
Il mio pensiero più grande ora va alla mia mamma. La felicità di affrontare la mia nuova vita, con l'uomo della mia vita, è stata un po' offuscata dagli occhi lucidi di Gisy. Vorrei poter dire tante cose, raccontare l'amore che questa donna fantastica ha dato a me e mio fratello. Non basterebbe un post, non basterebbe un blog. Non mi resta che cercare di assomigliarle il più possibile, di mettere in atto i suoi insegnamenti, di amarla ancora di più di quanto stia facendo ora.
Tra meno di un mese compirò 27 anni e 27 anni fa, adesso, lei ne aveva proprio 27. Aveva un pancione enorme e Massino piccolo che girava per casa. Aveva un marito, un lavoro e gli ultimi esami da dare per finire l'università. Ascoltava spesso una canzone che era appena uscita e che la faceva sentire serena. Quando capita ancora di sentirla alla radio, i suoi occhi si fanno ancora più dolci e sembra volare indietro nel tempo. Forse perché indirettamente insieme a lei l'ascoltavo anche io, ma io trovo questa canzone davvero stupenda nella sua semplicità, quasi una filastrocca, una ninna nanna.
Ti voglio bene G.


10 febbraio 2010

Caro nonno,
ti scrivo due righe veloci veloci, perché è un po' che non parliamo e volevo dirti solo un paio di cose. Cavolo, mi viene già da piangere.
Volevo dirti che l'altro giorno in classe, il 27 gennaio, ho parlato di te. Ho raccontato a dei ragazzini di undici anni la storia che tu hai raccontato a noi per tanti anni, con parole sempre diverse, suscitando emozioni sempre nuove. Ho cercato di essere il più fedele possibile, ho letto le parole che tu stesso hai scritto molti anni dopo la guerra. Ho spiegato loro della tua lunga fuga da Dachau, dopo i due precedenti tentativi falliti. Gli ho descritto la tua bicicletta tedesca e ora vogliono a tutti i costi vederla! Ho fatto fatica a trattenere le lacrime, la voce un paio di volte è uscita più bassa e rauca di come avrei voluto. Se ne sono accorti anche loro, è piombato un silenzio incredibile in classe. Hanno voluto vedere le cartoline che spedivi alla nonna dal campo di concentramento, hanno voluto vedere le tue foto e sono rimasti a bocca aperta quando i tuoi appunti riportavano "Avevo 28 anni quando rientrai ad Aosta dopo aver percorso quasi mille chilometri, prima a piedi e poi in bicicletta". E mentre leggevo avevo una piccola fitta allo stomaco anche io...non mi ero mai resa conto che avevi solo un anno più di me ora. Non l'avevo mai capito. Quando raccontavi ero forse troppo piccola per capire davvero. Lo sono anche ora, comunque.
So che tutto questo ti avrebbe reso molto fiero e orgoglioso, per cui te lo dico e lo scrivo, così che tu possa rileggerlo anche da dove ti trovi ora, ogni volta che vorrai.
La seconda cosa che volevo dirti, l'hai già capita da solo...Quando salivamo in ascensore mi dicevi sempre "A che piano, professoressa? Perchè lo sai che anche tu diventerai una professoressa come tua mamma, vero?". Lo dicevi raramente di fronte agli altri, quasi sempre in ascensore. Non ho mai capito perché. Beh, non sono ancora una professoressa, ci vorrà ancora del tempo. Ma sono sicura, sicurissima, che stai sorridendo e stai pensando "Brava, gioietta bella".
Infine, volevo solo dirti grazie per quello che hai fatto per la mamma. L'altro giorno, a tavola, si lamentava che nessuno di noi l'aiuta, che lei si occupa di tutti ma nessuno si occupa di lei. "L'unico che si è sempre preso cura di me, era il mio papà", ha detto. Non nascondo che ho provato invidia per lei, per aver avuto un papà così speciale. Volevo ringraziarti per questo.
Ti abbraccio forte, nonno. E ti stringo forte la mano, come quell'ultima volta che abbiamo passeggiato insieme, ricordi?
Arianna

10 marzo 2009

Perle ai porci...

Io (A) e la mamma (M) ci stavamo raccontando la nostra giornata, fatta di eventi, incontri, situazioni. Emozionata le ho raccontato di una strana coincidenza.
M: "Ah, già! Tu sei fissata con questa cosa delle coincidenze...".
A: "Non sono fissata, ne assaporo il gusto. Me l'hai fatto leggere tu "L'insostenibile leggerezza dell'essere", qualcosa avrai imparato anche tu...".
M: "L'ho letto mille anni fa, non mi ricordo niente...".
A: "Beh, in ogni caso, le coincidenze sono attorno a noi, pronte a manifestarsi a chi tiene gli occhi aperti; bisogna saper scorgere il destino nelle piccole cose, nei piccoli eventi di tutti i giorni. Il destino può parlarti, può insegnarti...o semplicemente può strapparti un sorriso o un pensiero un pò più profondo."
M: "Mah..."
Scuoto la testa e vado in camera mia a prendere il libro.
A: "Senti qua: "Un avvenimento è tanto più significativo e privilegiato quanti più casi fortuiti intervengono a determinarlo. Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla. Non certo la necessità, bensì il caso è pieno di magia." Domani mattina non ti emozionerai quando suonerà la sveglia, quando farai colazione o salirai in macchina. Ma magari incontrerai una persona che non vedevi da tanto, riceverai una telefonata inaspettata. Allora sì che ti emozionerai!"
M: "Già...".
E poi il silenzio.
M: "Ma...secondo te...".
A: "Si, mamma, dimmi...".
Ancora silenzio. La mamma abbassa gli occhi. Lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare.
M: "Secondo te, la Tim Welcome Home, conviene?".

© Moonrise Kingdom, AllRightsReserved.

Designed by ScreenWritersArena